domenica 7 marzo 2010

sempre più in basso, sempre più paura

Dall'articolo di Eugenio Scalfari del 7 marzo 2010 apparso sul sito di Repubblica:


[...] Poiché nel diritto pubblico un precedente produce una variante valida anche per il futuro, questo precedente potrà essere invocato d'ora in poi per condonare qualunque irregolarità procedurale a discrezione del governo. Non bastava il sistema delle ordinanze, immediatamente esecutive e sottratte ad ogni vaglio preventivo di costituzionalità; ad esso si aggiungerà d'ora in poi il decreto interpretativo facendo diventare norma l'aberrante principio che la sostanza prevale sempre sulla forma, come dichiarò pochi giorni fa il presidente del Senato, Schifani, dando espressione impudentemente esplicita ad un principio eversivo della legalità. Esiste nella nostra lingua la parola "sprocedato" per definire una persona scorretta che si comporta in modo contrario ai suoi doveri. La esse è privativa, sprocedato significa appunto "senza procedura".

E bene, stabilire la prevalenza della sostanza sulla forma in materia di procedura non ha altra conseguenza che legittimare l'illegalità permanente nella vita pubblica, o meglio: far coincidere la legalità con il volere del capo dell'esecutivo, cioè stabilire la legittimità dell'assolutismo.

Un decreto interpretativo con potere retroattivo realizza questo gravissimo precedente. Non a caso Berlusconi lo ha preteso facendo balenare ripetutamente la minaccia di sollevare dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzioni tra il governo e il Capo dello Stato. Gianni Letta è stato il "missus dominicus" di questo vero e proprio ultimatum e - a quanto si sa - l'ha fatto valere con inusitata decisione. Questi gentiluomini del Papa ci stanno dando molte sorprese da qualche giorno in qua sui più vari terreni. Un Letta in armatura e lanciato a passo di carica non l'avevamo ancora visto anche se da tempo sotto il suo guanto appariva sempre più spesso l'artiglio di ferro.

mercoledì 3 marzo 2010

per futili motivi


Finalmente quel giorno arrivò.

Come al solito era in ritardo sulla tabella di marcia. Una breve corsa e poi la frenata: nella porta a vetri vedeva riflessa la sua immagine, accaldata e coi capelli arruffati. Il fiato grosso.

Fece un respiro ed entrò in ascensore, che a quell'ora era sempre vuoto. Si rimise a posto i vestiti con un gesto veloce, passando la mano per tutta la lunghezza dei pantaloni, mentre saliva al sesto piano e il cuore intanto saliva in gola.

L'odore dei corridoi lucidi e la vista delle luci soffuse erano ancora familiari: se li era immaginati centinaia di volte, come se non fosse mai andata via.

Ma l'aria era diversa, non l'aveva riconosciuta. E lei non ci si sentiva avvolta dentro come tanto tempo prima. Era quasi ostile.

E il silenzio, che non era più rotto dalle sue risate improvvise e fragorose o dalla sua voce che si faceva piccolina ma impertinente quando canticchiava durante le ore di lavoro. Era un silenzio pieno e pesante, che riempiva tutto.

Non si sentiva autorizzata a dire nulla: quel posto non era più suo.

La prima, la seconda, la terza porta. Le conosceva tutte, quelle stanze. Sul lato destro e su quello sempre troppo sinistro. E conosceva le facce e le storie che si trovavano all'interno. Era sicura di conoscerle meglio di chiunque altro.

Quando decise di andare via, un anno e mezzo prima, avrebbe voluto fare un collage con quelle facce e quelle storie, raggrupparle cercando di far combaciare dei bordi che mai e poi mai sarebbero stati bene insieme, e poi girare qualcosa che assomigliasse a un documentario, in bianco e nero per cogliere solo l'essenza, e farlo vedere a tutti.

'Ecco, è così che vi vedo io. Anche la persona con cui ho parlato meno, la più antipatica, quella che mi ha considerato meno utile di un tappo di bottiglia, ha contato qualcosa per me.'

Ma, come per tanti altri progetti ambiziosi, non l’aveva portato a termine. Anche perché i suoi mezzi erano limitati, mica come il pensiero.

Solo per far vedere che il suo occhio era sempre attento, e aveva, nemmeno fosse un prete di periferia che conosce tutte le sue pecorelle smarrite, una parola per ognuno di loro.

Tranne l'ultimo, o forse il primo, il più alto di tutti, il più distaccato, con cui lei sperava da tempo di avere un rapporto privilegiato. Ma capitava di non trovare le parole. E allora lo guardava.

A volte le sembrava di non poterne fare a meno.

E quello strano modo che aveva avuto lui, quando lei era andata via, di richiamarla a sé, di farle sapere, in un modo timido ma pieno di calore, che teneva a lei e che, in qualche luogo, sentiva la sua mancanza.

Quel legame era così speciale. Perché unico, irripetibile, tra due esistenze così distanti e diverse fra loro. Perché intimo ma così privo di colpe. Perché condiviso solo fra loro due, perché nessun'altro poi avrebbe capito.

Sarebbe arrivato prima o poi il momento di varcare anche quella soglia, dopo tutti quei mesi. Sentiva il nervosismo solleticarle la schiena, e voleva grattarlo via, eliminare il problema, eludere il pensiero ma non ci riusciva perché in fondo, era semplicemente tutto quello che desiderava.

Varcare quella soglia era la cosa più importante da fare in quella giornata. O forse di quelle ultime settimane, da quando aveva pensato di fargli quella sorpresa.

Tutto il resto, tutte le altre porte con le loro maniglie dorate e i loro stipiti, quella mattina non avevano nessuna funzione. Le porte non dovevano essere aperte o chiuse, le maniglie non dovevano essere afferrate, girate e poi spinte: quella mattina erano lì solamente a spianare la strada che portava in quella stanza.

Avrebbe potuto rischiare di incontrarlo al di fuori dalla sua stanza, ma sperava di aver pianificato tutto in modo perfetto perché non accadesse, e perché la sorpresa si conservasse intatta, facendo attenzione a non tralasciare le cose stupide, che quando non vanno per il verso giusto diventano subito gigantesche.

Arrivare lì, unire i piedi e allineare tutto il corpo nel modo più composto e ordinato che conosceva. Superare le chiacchiere degli altri e le domande già sentite con la risposta data. Scavalcare tutto e tutti con un salto, certa di avere gambe più lunghe degli altri.

E così, scostare i capelli dal viso e raddrizzare la schiena, e col petto in fuori entrare lì dentro, piena di speranze che sperano chissà cosa.

Era certa di trovarlo così, come sperava di averlo visto solo lei. Davanti a quel tavolo dai bordi smussati, lungo i quali le piaceva passare le mani le poche volte che si era seduta di fronte a lui, circondata da quelle tende bianco latte che erano perennemente abbassate, e lei aveva così voglia di avvolgerle e riempiersi gli occhi di tutto quello che c'era intorno.

Ma si ricordò che le veniva voglia di farlo solo quando in quella stanza non c'era lui.

Non era una figura piccola, insignificante, che non riempiva il titolo che gli era stato attribuito. Aveva dignità ed eleganza anche se non lasciava trasparire nessun sentimento, neanche un cedimento di vanità. Anche se a volte per trasformare un'idea in parole le pareva ci mettesse un secolo e lei cominciava a sentire quanto facevano male i tacchi, a stare lì così, in piedi, cercando sempre di tenere la schiena dritta. Passava così tanto tempo che a volte pensava di voler scappare perché si era dimenticata cosa gli avesse chiesto. Poi la risposta alla fine arrivava e la sorprendeva sempre, e si chiedeva perché parlasse così poco uno che aveva cose intelligenti da dire, e tutti gli altri invece stavano sempre a bocca aperta, a dire o urlare qualcosa di inutile.

Stava lì, girato verso la tastiera, con i gomiti sulle ginocchia perché anche quella sedia non era adatta alla sua altezza, chissà se stava comodo. La bocca coperta dalla mano per aiutare la concentrazione. La luce azzurrina dello schermo che rifletteva su quella più blu dei suoi occhi.

Ecco cos'era. Era quella luce che lei voleva guardare dritto quando arrivava la mattina, e scoprire se il colore era diverso da un giorno all'altro. O, semplicemente, guardare. E sorridere.

Non se l'aspettava. Lei non si aspettava la sua reazione e lui non si aspettava lei. Restarono immobili per qualche secondo ma lei non poté fare a meno di lasciar uscire il suo imbarazzo allargando le labbra in un sorriso. Non sapeva fare altro, e per quanto si sentisse stupida, non riusciva ad evitarlo.

Lui, quando aveva sentito bussare, era pronto ad arrabbiarsi, credendo che alla porta ci fosse l'ennesima scocciatura a quella clausura imposta dall'interno, quando è così difficile mescolarsi agli altri, se poi si deve cercare di gestirli.

Si sciolse poco dopo, con un'espressione di sorpresa. Quella doveva essere una mattina come tutte le altre.